Proviene dagli scavi condotti a Corinto dall’American School of Classical Studies un enigmatico frammento a figure rosse, rinvenuto sporadico nell’area della Stoa meridionale. Protagonista della scena è un giovane uomo, di cui sopravvive la parte superiore della testa – il volto coperto da una barba ispida – che porta una mano al capo in segno di stupore e di raccapriccio, mentre dai suoi capelli, ed è questo il dato inconsueto, germogliano delle foglie ellittico-lanceolate, fra le quali si intravvedono piccole infiorescenze di colore bianco. Alla sua sinistra si erge un albero, con foglie e bacche del tutto simili a quelle che fioriscono sul capo del giovane. Siamo dinnanzi ad un hapax: il frammento, pertinente ad una pelike, suggerisce, infatti, una trasformazione in atto e ci induce a porci il tema della resa in immagine della metamorfosi nell’arte greca e a tentare di identificare il mito dipinto con l’ausilio delle fonti letterarie, ed, in particolare, per mezzo della lettura di Nicandro di Colofone, poeta ellenistico autore di Heteroioumena in quattro o cinque libri sui miti di metamorfosi, il quale ci tramanda un mito di vendetta divina, che mostra notevoli punti di contatto con la nostra immagine. Il mitografo racconta come in tempi antichissimi, ben prima della spedizione di Eracle in Occidente, quando gli uomini si dedicavano all’allevamento delle greggi, in un luogo chiamato Hierapetra, ossia le Rocce Sacre, vivevano le Ninfe Epimelidi e che: “i giovani Messapi trascurarono le greggi per andare a contemplarle e sostennero di danzare meglio di loro. Le Ninfe furono punte nel vivo da quest’affermazione e fu organizzata una sfida danzante”. Non essendo che dei pastori il loro stile era grossolano, mentre quello delle Ninfe fu di suprema bellezza. Adirate coi pastori esse pronunciarono queste parole “Avete voluto, giovani, sfidare le Ninfe Epimelidi dato che siete stati vinti, sarete dunque puniti”. E i pastori furono trasformati in alberi nello stesso punto in cui si trovavano, presso il santuario delle Ninfe. Ancora oggi si sentono di notte provenire dei gemiti dai tronchi. Il luogo viene indicato come quello delle Ninfe e dei Ragazzi.” La narrazione di Nicandro/Antonino Liberale ritorna con qualche lieve differenza in Ovidio, in cui protagonista è un solo pastore messapico, il quale imita le ninfe nella loro danza e le svillaneggia, le scimmiotta, le deride, provocandone la reazione. Continua il poeta (vv. 523-526): “non chiuse la bocca finché la corteccia non gli ostruì la gola. Adesso è un albero, e dal succo puoi dedurre il carattere del pastore: l’oleastro, infatti, mostra una traccia della sua lingua nelle bacche di sapore amaro: hanno ereditato l’asprezza del suo linguaggio”. Ovidio, dunque, aggiunge un ulteriore particolare, specificando che si tratta della metamorfosi in olivastro, e si discosta da Nicandro in due punti, in quanto protagonista del racconto è, come abbiamo anticipato, un unico pastore e mancano nella sua versione i gemiti notturni che i pastori metamorfizzati emettono dalle loro cortecce. Il frammento della nostra pelike se non fosse anteriore di quasi tre secoli rispetto a Nicandro e, ancora di più riguardo al poeta latino, potrebbe apparire quasi come una fedele trascrizione in immagine delle due fonti: un giovane uomo (non possiamo sapere dal frammento superstite se fosse uno o più di uno) è metamorfizzato in ulivo o olivastro, e ne mostra i segni nelle foglie che germogliano a partire dalle tempie mentre esprime con la gestualità e col pathos del volto. Come spiegare, innanzitutto, la perfetta coincidenza della nostra immagine di fine quinto secolo a.C. col più tardo racconto nicandreo-ovidiano? Possiamo solo postulare, in mancanza di altri dati, l’esistenza di un’opera letteraria anteriore sui miti di metamorfosi a noi non pervenuta – possibile fonte anche delle Eliadi eschilee – che il poeta di età ellenistica avrebbe ripreso in conformità col suo metodo di lavoro, che, nei due poemetti didascalici a noi giunti Theriaka e Alexipharmaka recepisce “impassibile, l’uniformità catalogica del modello”. Non è, tuttavia, da escludere l’esistenza di leggende locali tramandate oralmente, e divenute popolari. L’altro problema che ha meritato una qualche riflessione riguarda i motivi dell’interesse di un pittore vascolare per un mito di probabile origine messapica, certamente non consueto nel repertorio figurativo attico contemporaneo. È stato necessario cioè interrogarci se dietro una scelta tanto inconsueta non fossero in realtà operanti dinamiche storico-politiche in grado di giustificare l’interesse per esso. Molte testimonianze di natura epigrafica, storica e politica documentano l’interesse di Atene per il mondo indigeno nella seconda metà del V secolo a.C. Dell’instaurarsi di relazioni diplomatiche fra Atene e la Messapia è testimone Tucidide (VII, 33, 4-5) il quale, a proposito della spedizione in Sicilia e dell’invio di rinforzi ateniesi, ci informa che nel 413 a.C., le navi si fermarono alle isole Cheradi, dove un dinasta messapico, Artas, fornì ai Greci centocinquanta akontistai, rinnovando una palaia philia; nel clima di rinnovati rapporti fra Atene e la Messapia può non stupire che il patrimonio mitico di questa regione fosse divenuto in un certo qual modo “familiare”, o, che, al contrario, fosse stato “riscritto” un mito attico che potesse rendere conto dei rapporti fra i due popoli, può non stupire se solo consideriamo alcuni esempi della duttilità della propaganda ateniese, abile nel “manipolare” il patrimonio mitico a fini politici.

L’uomo albero: una possibile esegesi

GIUDICE, ELVIA MARIA LETIZIA
;
GIUDICE, GIADA
2016-01-01

Abstract

Proviene dagli scavi condotti a Corinto dall’American School of Classical Studies un enigmatico frammento a figure rosse, rinvenuto sporadico nell’area della Stoa meridionale. Protagonista della scena è un giovane uomo, di cui sopravvive la parte superiore della testa – il volto coperto da una barba ispida – che porta una mano al capo in segno di stupore e di raccapriccio, mentre dai suoi capelli, ed è questo il dato inconsueto, germogliano delle foglie ellittico-lanceolate, fra le quali si intravvedono piccole infiorescenze di colore bianco. Alla sua sinistra si erge un albero, con foglie e bacche del tutto simili a quelle che fioriscono sul capo del giovane. Siamo dinnanzi ad un hapax: il frammento, pertinente ad una pelike, suggerisce, infatti, una trasformazione in atto e ci induce a porci il tema della resa in immagine della metamorfosi nell’arte greca e a tentare di identificare il mito dipinto con l’ausilio delle fonti letterarie, ed, in particolare, per mezzo della lettura di Nicandro di Colofone, poeta ellenistico autore di Heteroioumena in quattro o cinque libri sui miti di metamorfosi, il quale ci tramanda un mito di vendetta divina, che mostra notevoli punti di contatto con la nostra immagine. Il mitografo racconta come in tempi antichissimi, ben prima della spedizione di Eracle in Occidente, quando gli uomini si dedicavano all’allevamento delle greggi, in un luogo chiamato Hierapetra, ossia le Rocce Sacre, vivevano le Ninfe Epimelidi e che: “i giovani Messapi trascurarono le greggi per andare a contemplarle e sostennero di danzare meglio di loro. Le Ninfe furono punte nel vivo da quest’affermazione e fu organizzata una sfida danzante”. Non essendo che dei pastori il loro stile era grossolano, mentre quello delle Ninfe fu di suprema bellezza. Adirate coi pastori esse pronunciarono queste parole “Avete voluto, giovani, sfidare le Ninfe Epimelidi dato che siete stati vinti, sarete dunque puniti”. E i pastori furono trasformati in alberi nello stesso punto in cui si trovavano, presso il santuario delle Ninfe. Ancora oggi si sentono di notte provenire dei gemiti dai tronchi. Il luogo viene indicato come quello delle Ninfe e dei Ragazzi.” La narrazione di Nicandro/Antonino Liberale ritorna con qualche lieve differenza in Ovidio, in cui protagonista è un solo pastore messapico, il quale imita le ninfe nella loro danza e le svillaneggia, le scimmiotta, le deride, provocandone la reazione. Continua il poeta (vv. 523-526): “non chiuse la bocca finché la corteccia non gli ostruì la gola. Adesso è un albero, e dal succo puoi dedurre il carattere del pastore: l’oleastro, infatti, mostra una traccia della sua lingua nelle bacche di sapore amaro: hanno ereditato l’asprezza del suo linguaggio”. Ovidio, dunque, aggiunge un ulteriore particolare, specificando che si tratta della metamorfosi in olivastro, e si discosta da Nicandro in due punti, in quanto protagonista del racconto è, come abbiamo anticipato, un unico pastore e mancano nella sua versione i gemiti notturni che i pastori metamorfizzati emettono dalle loro cortecce. Il frammento della nostra pelike se non fosse anteriore di quasi tre secoli rispetto a Nicandro e, ancora di più riguardo al poeta latino, potrebbe apparire quasi come una fedele trascrizione in immagine delle due fonti: un giovane uomo (non possiamo sapere dal frammento superstite se fosse uno o più di uno) è metamorfizzato in ulivo o olivastro, e ne mostra i segni nelle foglie che germogliano a partire dalle tempie mentre esprime con la gestualità e col pathos del volto. Come spiegare, innanzitutto, la perfetta coincidenza della nostra immagine di fine quinto secolo a.C. col più tardo racconto nicandreo-ovidiano? Possiamo solo postulare, in mancanza di altri dati, l’esistenza di un’opera letteraria anteriore sui miti di metamorfosi a noi non pervenuta – possibile fonte anche delle Eliadi eschilee – che il poeta di età ellenistica avrebbe ripreso in conformità col suo metodo di lavoro, che, nei due poemetti didascalici a noi giunti Theriaka e Alexipharmaka recepisce “impassibile, l’uniformità catalogica del modello”. Non è, tuttavia, da escludere l’esistenza di leggende locali tramandate oralmente, e divenute popolari. L’altro problema che ha meritato una qualche riflessione riguarda i motivi dell’interesse di un pittore vascolare per un mito di probabile origine messapica, certamente non consueto nel repertorio figurativo attico contemporaneo. È stato necessario cioè interrogarci se dietro una scelta tanto inconsueta non fossero in realtà operanti dinamiche storico-politiche in grado di giustificare l’interesse per esso. Molte testimonianze di natura epigrafica, storica e politica documentano l’interesse di Atene per il mondo indigeno nella seconda metà del V secolo a.C. Dell’instaurarsi di relazioni diplomatiche fra Atene e la Messapia è testimone Tucidide (VII, 33, 4-5) il quale, a proposito della spedizione in Sicilia e dell’invio di rinforzi ateniesi, ci informa che nel 413 a.C., le navi si fermarono alle isole Cheradi, dove un dinasta messapico, Artas, fornì ai Greci centocinquanta akontistai, rinnovando una palaia philia; nel clima di rinnovati rapporti fra Atene e la Messapia può non stupire che il patrimonio mitico di questa regione fosse divenuto in un certo qual modo “familiare”, o, che, al contrario, fosse stato “riscritto” un mito attico che potesse rendere conto dei rapporti fra i due popoli, può non stupire se solo consideriamo alcuni esempi della duttilità della propaganda ateniese, abile nel “manipolare” il patrimonio mitico a fini politici.
2016
Nicandro di Colofone , Ovidio
metamorfosi, iconografia vascolare
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/20.500.11769/19432
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