Il saggio si focalizza sull’analisi stilistica e linguistica di tre epistole (le uniche superstiti) composte dal letterato e giurista palermitano Giovan Guglielmo Bonincontro rispettivamente nel 1568, nel 1571 e nel 1575. Tre anni fondamentali per la biografia dell’autore che coincidono con momenti di crisi anche per la Sicilia e i paesi del Mediterraneo: una crisi registrata in varia misura nelle lettere. La prima fu stesa dal carcere del Sant’Uffizio di Palermo mentre l’uomo attendeva di partecipare da penitente, di lì a pochi mesi, all’autodafé nel quale sarebbe stato condannato a indossare il sambenito per dieci anni. La seconda, composta dalla campagna palermitana nella quale viveva come un esiliato, attacca i monaci di San Martino delle Scale (importante monastero benedettino vicino Palermo), per aver disertato la Carità ed essersi votati alla simonia. La terza, scritta poco prima di morire, registra la drammatica situazione vissuta dalla città siciliana a causa dell’epidemia di peste che flagellava l’intera isola e non solo. Tutte sono pervase da un profondo sarcasmo e impostate stilisticamente con chiara funzione parodistica. Lo scrittore, infatti, evidenzia le storture ma anche l’indecifrabilità di una società moralmente e politicamente corrotta attraverso l’uso di una lingua e di marche stilistiche che recuperano il registro utilizzato da coloro che intende colpire: la Chiesa e gli ecclesiastici, gli uomini di corte, gli intellettuali e le personalità al governo della città e dell’isola.

Un esempio di epistolografia satirica del Cinquecento: Giovan Guglielmo Bonincontro e il Sant’Uffizio in Sicilia

Agnese Amaduri
2009-01-01

Abstract

Il saggio si focalizza sull’analisi stilistica e linguistica di tre epistole (le uniche superstiti) composte dal letterato e giurista palermitano Giovan Guglielmo Bonincontro rispettivamente nel 1568, nel 1571 e nel 1575. Tre anni fondamentali per la biografia dell’autore che coincidono con momenti di crisi anche per la Sicilia e i paesi del Mediterraneo: una crisi registrata in varia misura nelle lettere. La prima fu stesa dal carcere del Sant’Uffizio di Palermo mentre l’uomo attendeva di partecipare da penitente, di lì a pochi mesi, all’autodafé nel quale sarebbe stato condannato a indossare il sambenito per dieci anni. La seconda, composta dalla campagna palermitana nella quale viveva come un esiliato, attacca i monaci di San Martino delle Scale (importante monastero benedettino vicino Palermo), per aver disertato la Carità ed essersi votati alla simonia. La terza, scritta poco prima di morire, registra la drammatica situazione vissuta dalla città siciliana a causa dell’epidemia di peste che flagellava l’intera isola e non solo. Tutte sono pervase da un profondo sarcasmo e impostate stilisticamente con chiara funzione parodistica. Lo scrittore, infatti, evidenzia le storture ma anche l’indecifrabilità di una società moralmente e politicamente corrotta attraverso l’uso di una lingua e di marche stilistiche che recuperano il registro utilizzato da coloro che intende colpire: la Chiesa e gli ecclesiastici, gli uomini di corte, gli intellettuali e le personalità al governo della città e dell’isola.
2009
Letteratura, Cinquecento, Inquisizione
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/20.500.11769/370341
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