Dal tempo in cui Zevi, nel 1996, diede alle stampe il suo Dialetti architettonici la ricerca sui temi dell’architettura minore, che il critico ci suggeriva di approfondire, non ha avuto una significativa evoluzione. Di contro, ad avere una notevole espansione è stata quell’architettura con la “a” minuscola su cui ci piacerebbe riflettere. Con l’architettura con la “a” minuscola non ci si riferisce alla dimensione delle costruzioni né all’appartenenza di queste alla produzione popolare, la cosiddetta “architettura minore”. Non si tratta di architetture spontanee in cui è l’espressione dialettale invece che il linguaggio architettonico a declinare l’opera. E neanche si tratta di quelle architetture senza architetti a cui fa riferimento Bernard Rudofsky nel catalogo del 1964 dal titolo “Architecture Without Architects: A Short Introduction to Non-Pedigreed Architecture”. Le costruzioni a cui ci riferiamo sono pensate, progettate e realizzate da professionisti della progettazione che dovrebbero conoscere la storia, la città, la storia dell’architettura, le tecnologie e i materiali e che invece, per diverse ragioni, realizzano manufatti che sembrano ignorare tutte queste componenti essenziali. La questione è quella a cui rimanda Renzo Piano: il senso di responsabilità che ogni architetto dovrebbe avere. Alcuni studiosi, come Zevi, attribuiscono parte di questo stato di cose a quella che chiamano la “dis-architetturizzazione”, corrispondente a un nuovo grado zero, quello della “iconografia del disastro” di winesiana memoria. Altri ricercatori si avvalgono di categorie come il “perturbante” (Vidler) o l’”assurdo” (Silber) per descrivere l’architettura corrente. Essi però si riferiscono a quella produzione architettonica patinata, delle archistar, che dovrebbe fare da riferimento all’operato dei professionisti e che spesso ‘purtroppo’ ci riesce. Il progetto d’architettura, che ogni progettista quotidianamente è chiamato a immaginare, sembra aver perso la capacità di risolvere i problemi che la stessa architettura pone. A cosa debba essere attribuito questo non è facile da individuare per la molteplicità delle cause e soprattutto per quella condizione di prossimità temporale con i fenomeni architettonici che ci impedisce un’analisi distaccata e neutra dei fatti. Tuttavia nel caso dell’architettura con la “a” minuscola è possibile analizzare una serie di caratteristiche che si ripetono. La difficoltà sta nella ricerca delle ragioni di certe scelte, nella interpretazione delle soluzioni, nell’individuazione delle cause endogene alla formazione del progettista e delle azioni esterne al suo operato. Si tenta quindi di riflettere sui perché di alcune derive, distrazioni, insuccessi o compromessi che i progettisti spesso si trovano a commettere consegnando un paesaggio architettonico definitivamente offeso. Un’altra faccia della stessa medaglia è quella dell’architettura con la “a” minuscola per mancanza di cultura architettonica. In questo caso il tema va affrontato a partire dalle realizzazioni delle imprese di costruzioni, dalla industrializzazione dell’edilizia e dello stesso progetto. Si potrebbe però obiettare che non si tratta di architettura ma di produzione edilizia e che non esiste l’architettura ma esiste solo l’Architettura. Se esiste solo quella con la “A” maiuscola allora dovrebbe almeno rappresentare un orizzonte verso cui muoversi, per quanto irraggiungibile, per la maggioranza dei progetti, un riferimento per poter migliorare le condizioni di vita e il paesaggio dell’uomo. A questo proposito è lecito chiedersi, che tipo di scambio esiste tra l’architettura cosiddetta con la “A” maiuscola e quella con la “a” minuscola? E se esiste, quali sono i margini di influenza? Il condurre delle riflessioni sullo stato di questa ‘categoria’ di architettura - che è quella che maggiormente concorre a costruire il paesaggio quotidiano - è utile didatticamente a riconoscere eventuali “cattivi maestri” da cui apprendere cosa non si deve fare; ed è anche utile alla formazione di una cultura comune che non consideri più come un riferimento quell’immaginario collettivo costruito sulla desolazione di alcuni paesaggi architettonici contemporanei.

L’architettura con la “a” minuscola

D'URSO, SEBASTIANO
2011-01-01

Abstract

Dal tempo in cui Zevi, nel 1996, diede alle stampe il suo Dialetti architettonici la ricerca sui temi dell’architettura minore, che il critico ci suggeriva di approfondire, non ha avuto una significativa evoluzione. Di contro, ad avere una notevole espansione è stata quell’architettura con la “a” minuscola su cui ci piacerebbe riflettere. Con l’architettura con la “a” minuscola non ci si riferisce alla dimensione delle costruzioni né all’appartenenza di queste alla produzione popolare, la cosiddetta “architettura minore”. Non si tratta di architetture spontanee in cui è l’espressione dialettale invece che il linguaggio architettonico a declinare l’opera. E neanche si tratta di quelle architetture senza architetti a cui fa riferimento Bernard Rudofsky nel catalogo del 1964 dal titolo “Architecture Without Architects: A Short Introduction to Non-Pedigreed Architecture”. Le costruzioni a cui ci riferiamo sono pensate, progettate e realizzate da professionisti della progettazione che dovrebbero conoscere la storia, la città, la storia dell’architettura, le tecnologie e i materiali e che invece, per diverse ragioni, realizzano manufatti che sembrano ignorare tutte queste componenti essenziali. La questione è quella a cui rimanda Renzo Piano: il senso di responsabilità che ogni architetto dovrebbe avere. Alcuni studiosi, come Zevi, attribuiscono parte di questo stato di cose a quella che chiamano la “dis-architetturizzazione”, corrispondente a un nuovo grado zero, quello della “iconografia del disastro” di winesiana memoria. Altri ricercatori si avvalgono di categorie come il “perturbante” (Vidler) o l’”assurdo” (Silber) per descrivere l’architettura corrente. Essi però si riferiscono a quella produzione architettonica patinata, delle archistar, che dovrebbe fare da riferimento all’operato dei professionisti e che spesso ‘purtroppo’ ci riesce. Il progetto d’architettura, che ogni progettista quotidianamente è chiamato a immaginare, sembra aver perso la capacità di risolvere i problemi che la stessa architettura pone. A cosa debba essere attribuito questo non è facile da individuare per la molteplicità delle cause e soprattutto per quella condizione di prossimità temporale con i fenomeni architettonici che ci impedisce un’analisi distaccata e neutra dei fatti. Tuttavia nel caso dell’architettura con la “a” minuscola è possibile analizzare una serie di caratteristiche che si ripetono. La difficoltà sta nella ricerca delle ragioni di certe scelte, nella interpretazione delle soluzioni, nell’individuazione delle cause endogene alla formazione del progettista e delle azioni esterne al suo operato. Si tenta quindi di riflettere sui perché di alcune derive, distrazioni, insuccessi o compromessi che i progettisti spesso si trovano a commettere consegnando un paesaggio architettonico definitivamente offeso. Un’altra faccia della stessa medaglia è quella dell’architettura con la “a” minuscola per mancanza di cultura architettonica. In questo caso il tema va affrontato a partire dalle realizzazioni delle imprese di costruzioni, dalla industrializzazione dell’edilizia e dello stesso progetto. Si potrebbe però obiettare che non si tratta di architettura ma di produzione edilizia e che non esiste l’architettura ma esiste solo l’Architettura. Se esiste solo quella con la “A” maiuscola allora dovrebbe almeno rappresentare un orizzonte verso cui muoversi, per quanto irraggiungibile, per la maggioranza dei progetti, un riferimento per poter migliorare le condizioni di vita e il paesaggio dell’uomo. A questo proposito è lecito chiedersi, che tipo di scambio esiste tra l’architettura cosiddetta con la “A” maiuscola e quella con la “a” minuscola? E se esiste, quali sono i margini di influenza? Il condurre delle riflessioni sullo stato di questa ‘categoria’ di architettura - che è quella che maggiormente concorre a costruire il paesaggio quotidiano - è utile didatticamente a riconoscere eventuali “cattivi maestri” da cui apprendere cosa non si deve fare; ed è anche utile alla formazione di una cultura comune che non consideri più come un riferimento quell’immaginario collettivo costruito sulla desolazione di alcuni paesaggi architettonici contemporanei.
2011
978-88-95612-76-8
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/20.500.11769/72132
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