Il romanzo Retablo di Vincenzo Consolo ambientato nella Sicilia del 1760-61, annovera, tra i nomi di alcuni personaggi storici del Settecento italiano e siciliano quali Serpotta, Beccaria, i Verri, i Visconti, Parini, anche quello di Giovanni Meli. Oltre al nome del poeta, Retablo contiene anche una straordinaria citazione dall’idillio III, Dafni, della Buccolica, seguita da una sorta di gioco verbale sul nome del poeta siciliano e quindi sulla qualità stessa dei suoi versi: Risposemi il pastore, quando che fu scemato il gran lamento, con questi versi dolci, e lievi, intanto che faceva assumere al malato la tisana: Guidava lu pateticu sò carru ’Ntra li gravi silenzi la Notti; L’umbri abbrazzati a la gran matri antica S’agnunavanu friddi e taciturni Sutta li grutti e l’àrvuli, scanzannu Di la nascenti luna la chiarìa… D’un poeta di qua, mi disse dopo, da tutti conosciuto e frequentato, di nome Meli. Ma Mele dico e doversi dire, come mele o melle, o meliàca, che ammolla e ammalia ogni malo male. E lene scivolava, come in molle cuna, quell’uom dolente, dentro il sonno greve, il prodigioso lete d’ogni pena o cura. Questa prima citazione dall’idillio Dafni si trova nella seconda parte di Retablo, e precisamente nel capitoletto intitolato In Egesta degli Elìmi, dove si svolge, tra gli altri, l’episodio del «curàtolo Nino Alàimo», nel quale il motivo pastorale, in variante notturna, è al cuore del racconto. Nino Alaimo è un pastore che accoglie con grande generosità i due pellegrini protagonisti del romanzo, l’artista milanese Fabrizio Clerici e frate Isidoro che gli fa da guida, capitati nel suo «stazzo» dopo una rigenerante sosta ai Bagni segestani, compromessa però dal furto di tutto quanto (armi, muli, e ogni bagaglio e provvista…) i due viaggiatori portavano con sé, eccetto i libri. L’episodio era stato preceduto da un commento, secondo lo stile consueto di Consolo, sull’essere e sull’avere, sulla ricchezza e sulla mancanza di beni, e quindi da un’ulteriore notazione etico-ideologica sugli «umili» e i «disinteressati», qui identificati non a caso con dei personaggi genuini (villanelli, musici, nobili vegliardi), personaggi di una pastorale forse ancora possibile nel Settecento, pur se di un Settecento immaginario, ma anche storico, come quello ricostruito in Retablo. E proprio come uomini umili e bisognosi, il pastore Alàimo guarderà ai due pellegrini rimasti nudi a causa del furto. Il tema pastorale si configura pertanto, accanto e in contrasto, con quello della ricchezza e dell’avidità, tema quest’ultimo ampiamente trattato nell’opera del Meli, di cui sicuramente Consolo ha fatto tesoro attraverso la Buccolica specialmente, ma non solo. Ora, questo contrasto tra un mondo pastorale nel quale accanto all’amore regna la giustizia, tra un’età dell’oro siciliana che già nel Meli è mitologica e reale a un tempo (dal momento che egli auspica una riforma economico-sociale nell’isola, secondo gli ideali fisiocratici e scientifici del suo tempo), e una condizione invece di miseria e di violenza determinate dall’ingiustizia sociale, questo contrasto, dicevamo, attraversa anche l’intera produzione di Consolo. Giovanni Meli viene ancora una volta citato alla fine del romanzo, tra gli artisti lascivi e libertini:
LA PASTORALE SICILIANA DA GIOVANNI MELI A VINCENZO CONSOLO
GALVAGNO, Rosalba
2016-01-01
Abstract
Il romanzo Retablo di Vincenzo Consolo ambientato nella Sicilia del 1760-61, annovera, tra i nomi di alcuni personaggi storici del Settecento italiano e siciliano quali Serpotta, Beccaria, i Verri, i Visconti, Parini, anche quello di Giovanni Meli. Oltre al nome del poeta, Retablo contiene anche una straordinaria citazione dall’idillio III, Dafni, della Buccolica, seguita da una sorta di gioco verbale sul nome del poeta siciliano e quindi sulla qualità stessa dei suoi versi: Risposemi il pastore, quando che fu scemato il gran lamento, con questi versi dolci, e lievi, intanto che faceva assumere al malato la tisana: Guidava lu pateticu sò carru ’Ntra li gravi silenzi la Notti; L’umbri abbrazzati a la gran matri antica S’agnunavanu friddi e taciturni Sutta li grutti e l’àrvuli, scanzannu Di la nascenti luna la chiarìa… D’un poeta di qua, mi disse dopo, da tutti conosciuto e frequentato, di nome Meli. Ma Mele dico e doversi dire, come mele o melle, o meliàca, che ammolla e ammalia ogni malo male. E lene scivolava, come in molle cuna, quell’uom dolente, dentro il sonno greve, il prodigioso lete d’ogni pena o cura. Questa prima citazione dall’idillio Dafni si trova nella seconda parte di Retablo, e precisamente nel capitoletto intitolato In Egesta degli Elìmi, dove si svolge, tra gli altri, l’episodio del «curàtolo Nino Alàimo», nel quale il motivo pastorale, in variante notturna, è al cuore del racconto. Nino Alaimo è un pastore che accoglie con grande generosità i due pellegrini protagonisti del romanzo, l’artista milanese Fabrizio Clerici e frate Isidoro che gli fa da guida, capitati nel suo «stazzo» dopo una rigenerante sosta ai Bagni segestani, compromessa però dal furto di tutto quanto (armi, muli, e ogni bagaglio e provvista…) i due viaggiatori portavano con sé, eccetto i libri. L’episodio era stato preceduto da un commento, secondo lo stile consueto di Consolo, sull’essere e sull’avere, sulla ricchezza e sulla mancanza di beni, e quindi da un’ulteriore notazione etico-ideologica sugli «umili» e i «disinteressati», qui identificati non a caso con dei personaggi genuini (villanelli, musici, nobili vegliardi), personaggi di una pastorale forse ancora possibile nel Settecento, pur se di un Settecento immaginario, ma anche storico, come quello ricostruito in Retablo. E proprio come uomini umili e bisognosi, il pastore Alàimo guarderà ai due pellegrini rimasti nudi a causa del furto. Il tema pastorale si configura pertanto, accanto e in contrasto, con quello della ricchezza e dell’avidità, tema quest’ultimo ampiamente trattato nell’opera del Meli, di cui sicuramente Consolo ha fatto tesoro attraverso la Buccolica specialmente, ma non solo. Ora, questo contrasto tra un mondo pastorale nel quale accanto all’amore regna la giustizia, tra un’età dell’oro siciliana che già nel Meli è mitologica e reale a un tempo (dal momento che egli auspica una riforma economico-sociale nell’isola, secondo gli ideali fisiocratici e scientifici del suo tempo), e una condizione invece di miseria e di violenza determinate dall’ingiustizia sociale, questo contrasto, dicevamo, attraversa anche l’intera produzione di Consolo. Giovanni Meli viene ancora una volta citato alla fine del romanzo, tra gli artisti lascivi e libertini:I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.