La reclusione e l’erotismo sono i temi che legano i due film Un Chant d’amour di Jean Genet e Salò o le centoventi giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini, ispirato all’opera del Marchese de Sade scritta nel 1785 durante la sua prigionia alla Bastille. Il sesso, in entrambi i film, è usato come metafora del potere, e si esprime sempre nel suo gioco perverso della vittima e del suo carnefice. Genet e Pasolini non scelgono di far vedere le scene erotiche o pornografiche per aggiungere del realismo al loro film, ma per coinvolgere lo spettatore nella perversione della “rappresentazione”. Un volere accompagnare, attraverso la rappresentazione “simbolica” o diretta dell’erotismo, lo spettatore verso una visione estetica, psicologica e politica della sessualità. Genet e Pasolini provocano continuamente lo spettatore a desiderare il film, ad entrarvi per scrutare, per violare tacitamente l’intimità dell’uomo in preda al desiderio, che esso sia soggetto attivo o passivo di quest’atto. Entrambi, autori e registi, si nascondono dietro l’”oggetto-soggetto” della telecamera per guardare e dirigere l’azione del corpo dei sequestrati sulla scena. Essi partecipano, attraverso la direzione dell’azione, sia al sadismo del carnefice, nel suo ruolo di soprafazione dell’altro, che all’esibizionismo del corpo erotizzato della vittima. A quest’ambivalenza sadomasochista che contraddistingue la mente dei registi, va aggiunta l’inevitabile voyeurismo per chi sta dietro alla telecamera e di conseguenza anche per chi guarda il film in sala. Nello studio comparato dei due registi e scrittori, lo spazio può essere analizzato nella sua triplice dimensione percettiva che varia dal macro al micro. Dallo spazio scenico (cella, stanza o universo immaginario), l’immagine arriva alla telecamera per poi finire nella mente di chi pensa l’azione e la dirige, e vive versa. Il corpo è “immaginato”, in altre parole “messo in immagine”, per rappresentare una determinata emozione o azione pensata e voluta dal regista. Le “vittime-attori” di questo voyeurismo subiscono da parte dei registi una sorta di velata complicità nell’essere diretti come interpreti di un’espressione erotica “desiderata” più nella sua valenza di significante che di significato. Il corpo degli attori si fa supporto, l’epidermide diventa superficie sulla quale si esprime un ben preciso linguaggio erotico che oscilla dall’onanismo al sadismo, senza veli e leggi, puro e “sgrammaticato”.
La diglossia del desiderio. Mutismo, gesti e voci nel linguaggio cinematografico di Jean Genet e Pier Paolo Pasolini
IMPELLIZZERI, FABRIZIO
2016-01-01
Abstract
La reclusione e l’erotismo sono i temi che legano i due film Un Chant d’amour di Jean Genet e Salò o le centoventi giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini, ispirato all’opera del Marchese de Sade scritta nel 1785 durante la sua prigionia alla Bastille. Il sesso, in entrambi i film, è usato come metafora del potere, e si esprime sempre nel suo gioco perverso della vittima e del suo carnefice. Genet e Pasolini non scelgono di far vedere le scene erotiche o pornografiche per aggiungere del realismo al loro film, ma per coinvolgere lo spettatore nella perversione della “rappresentazione”. Un volere accompagnare, attraverso la rappresentazione “simbolica” o diretta dell’erotismo, lo spettatore verso una visione estetica, psicologica e politica della sessualità. Genet e Pasolini provocano continuamente lo spettatore a desiderare il film, ad entrarvi per scrutare, per violare tacitamente l’intimità dell’uomo in preda al desiderio, che esso sia soggetto attivo o passivo di quest’atto. Entrambi, autori e registi, si nascondono dietro l’”oggetto-soggetto” della telecamera per guardare e dirigere l’azione del corpo dei sequestrati sulla scena. Essi partecipano, attraverso la direzione dell’azione, sia al sadismo del carnefice, nel suo ruolo di soprafazione dell’altro, che all’esibizionismo del corpo erotizzato della vittima. A quest’ambivalenza sadomasochista che contraddistingue la mente dei registi, va aggiunta l’inevitabile voyeurismo per chi sta dietro alla telecamera e di conseguenza anche per chi guarda il film in sala. Nello studio comparato dei due registi e scrittori, lo spazio può essere analizzato nella sua triplice dimensione percettiva che varia dal macro al micro. Dallo spazio scenico (cella, stanza o universo immaginario), l’immagine arriva alla telecamera per poi finire nella mente di chi pensa l’azione e la dirige, e vive versa. Il corpo è “immaginato”, in altre parole “messo in immagine”, per rappresentare una determinata emozione o azione pensata e voluta dal regista. Le “vittime-attori” di questo voyeurismo subiscono da parte dei registi una sorta di velata complicità nell’essere diretti come interpreti di un’espressione erotica “desiderata” più nella sua valenza di significante che di significato. Il corpo degli attori si fa supporto, l’epidermide diventa superficie sulla quale si esprime un ben preciso linguaggio erotico che oscilla dall’onanismo al sadismo, senza veli e leggi, puro e “sgrammaticato”.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.