In the canon law of the Western Church, the formalization of the distinction between potestas ordinis and potestas iurisdictionis goes back to the scientific reflections inaugurated in the twelfth century. I use the word “formalization” because it was not an invention of Western canonists, but the scientific understanding of a phenomenon that belongs to the reality of the Church. In 1973, Pierre L'Huillier wrote a short article on the relationship between the power of order and of jurisdiction in the Eastern tradition. According to the author, both the canonical and theological tradition of the Eastern Churches recognize the distinction between the power of order and of jurisdiction, but they emphasize the connection between them, without confusing the two aspects of sacred power. It seems to me, however, that the Orthodox canonical science is not usual to make use of this distinction as a key to interpretation of the nature and exercise of sacred power. One exception is Nikodim Milasch. In the book Das Kirchenrecht der morgenländischen der Kirche (1990; German transl. 1905) he adopted the pattern of the tria munera and distinguished ecclesiastical power into three branches: the power of order, of jurisdiction, of teaching. The Eastern tradition emphasizes the connection between the two powers. This connection is evident if we consider the sacramental roots of the functions of governing and sanctifying that the bishop is called to exercise. The liturgy provides evidence of this, as we can see, for example, in the ritual of the episcopal consecration handed down from Traditio Apostolica. The liturgy expresses the awareness of the Church that the bishop holds a duplicate function: a religious function (divine worship and administration of sacraments), represented by the high priesthood, and the government of the community of the faithful. Some evidence shows that the distinction between order and jurisdiction was a reality in the experience and consciousness of the ancient Church. The sacramental effects of the cheirotonía remain even where there are changes in the sphere of jurisdiction (for example in the case of the transfer of a bishop). The can. 18 of the Council of Antioch regulates a case which clearly manifests the canonical awareness of the distinction between the power of order and of jurisdiction in the early Church. The canon foresees the hypothesis that a bishop can not take possession of the eparchy for which he was ordained, for the refusal of the people or for other reasons not related to him. The canon states that he will maintain the honour (timé) and the service (leitourghía), but should not interfere in the affairs of the eparchy while he is waiting for the synod to decide on his fate. The bishop, therefore, retains the prerogatives of the power of order, without being allowed to exercise the power of jurisdiction. The Orthodox tradition uses to affirm the “essential equality of bishops”: it derives from their episcopal consecration, which is both the source of the power of order and of the power of jurisdiction. For this reason it is usual to deny the existence of a supraepiscopal power: it does not exist, because there is not a degree of order higher than that of the episcopate. We are facing, in other words, the problem of the existence and nature of the primacy in the Church, that is of a higher power (at different levels) than the power that each bishop exerts in his own diocese. The analysis of the Sacred Canons and the interpretations of the canonists of the classical age show that the ecclesiastical organization is structured according to a hierarchy of jurisdiction. The synods are conceived as structures that produce legal rules that the bishops and the Churches must observe; synods judge, condemn, excommunicate, depose. In short, the authority of the synod is placed on the level of the exercise of the power of government, and in fact implies a jurisdictional superiority of the synod (with its prôtos) on the individual bishops. At the different levels of the hierarchy it is possible to determine a prôtos whose prerogatives can not be reduced to a simple “primacy of honour”. Some contemporary Orthodox theologians admit that the function of the prôtos implies, in fact, exercise of authority and power. Nevertheless, theologians and canonists are reluctant to frame this phenomenon in the paradigm of the distinction between the power of order and the power of jurisdiction. This distinction, in fact, allows to conceive different degrees of jurisdiction although the episcopal consecration is the same for all the bishops. The 34th Apostolic Canon presents the relationship between prôtos and provincial bishops in terms of a reciprocal conditioning which generates harmony (omónoia). In this context, the role of the prôtos implies authority and power, which are designed as a service (diakonía, ministerium) both in the tradition of Eastern and Western Churches. This common conception of the power of government as a service can be considered a starting point in the search for an interpretation and a practice of the primacy acceptable from the standpoint of ecumenism.

Nella scienza canonistica latina la formalizzazione della distinzione tra potestas ordinis e potestas iurisdictionis risale alle riflessioni scientifiche inaugurate nel secolo XII. Uso la parola “formalizzazione” perché non si tratta di una invenzione dei canonisti occidentali, ma della comprensione scientifica di un fenomeno che appartiene alla realtà della Chiesa. Nel 1973, Pierre L’Huillier dedicava un breve articolo al rapporto tra potestà di ordine e di giurisdizione nella tradizione orientale. Secondo l’autore, anche la tradizione canonica e teologica orientale riconosce la distinzione tra potestà di ordine e giurisdizione, ma sottolinea la loro connessione, senza confondere i due aspetti della potestà sacra. Mi sembra, tuttavia, che la scienza canonistica ortodossa non sia solita fare uso di tale distinzione come chiave di intepretazione della natura e dell’esercizio della potestà sacra. Una eccezione è costituita da Nikodim Milasch. Nel volume Das Kirchenrecht der morgenländischen Kirche (1905) egli adotta la sistematica dei tria munera e distingue la potestà ecclesiastica in tre rami: potestà di ordine, di giurisdizione, di magistero. Milasch trova che tale distinzione sia coerente con la tradizione canonica e con l’ecclesiologia ortodossa. La tradizione orientale pone l’accento sulla connessione tra le due potestà. Tale connessione è evidente se consideriamo la radice sacramentale delle funzioni di governare e di santificare che il vescovo è chiamato a esercitare. La liturgia offre testimonianza di questo aspetto, come possiamo vedere, per esempio, nel rito della consacrazione episcopale tramandato dalla Traditio apostolica. La liturgia esprime la coscienza ecclesiale che il vescovo è titolare di una duplica funzione: una funzione cultuale, rappresentata dal sommo sacerdozio, e una di governo della comunità dei fedeli. La Traditio apostolica rispecchia la prassi della Chiesa antica, nella quale la missione canonica (cioè l’elezione del vescovo) e la sua consacrazione sono contestuali. Alcuni fatti mostrano che la distinzione tra ordine e giurisdizione era una realtà presente nell’esperienza e nella coscienza della Chiesa antica. Gli effetti sacramentali della cheirotonía permangono anche dove vi siano mutamenti nella sfera della giurisdizione (per esempio nel caso del trasferimento di un vescovo). Il can. 18 del Concilio di Antiochia disciplina un caso nel quale si manifesta chiaramente la coscienza canonica della distinzione tra potestà di ordine e di giurisdizione nella Chiesa antica. Il canone prevede l’ipotesi che un vescovo non possa prendere possesso dell’ufficio nell’eparchia per la quale è stato ordinato, per il rifiuto del popolo o per altra causa a lui non addebitabile. Il canone dispone che egli conserverà l’onore (timè) e il servizio (leitourghía) ma non dovrà ingerirsi negli affari della eparchia dove si trova, in attesa che il sinodo decida sulla sua sorte. Il vescovo, dunque, mantiene le prerogative proprie della potestà di ordine, senza avere la possibilità di esercitare la potestà di giurisdizione. La tradizione ortodossa è solita affermare la “essenziale uguaglianza dei vescovi”: essa deriva appunto dalla loro consacrazione episcopale, la quale è allo stesso tempo la fonte della potestà di ordine e della potestà di giurisdizione. Per questa ragione si suole negare l’esistenza di un potere giurisdizionale sovraepiscopale: esso non esisterebbe, perché non esiste un grado dell’ordine superiore a quello episcopale. Siamo di fronte, in altri termini, al problema dell’esistenza e della natura del primato nella Chiesa, cioè di un potere superiore a quello che ciascun vescovo ha nella propria diocesi (al livello della provincia ecclesiastica, o al livello sovrametropolitano, o della Chiesa universale). L’analisi dei Sacri Canoni e delle intepretazioni dei canonisti bizantini dell’età classica mostra una articolazione della organizzazione ecclesiastica secondo una gerarchia di giurisdizione. I sinodi sono concepiti come strutture che producono norme giuridiche che i vescovi e le Chiese devono osservare; i sinodi giudicano, condannano, scomunicano, depongono. In breve, l’autorità sinodale si pone sul piano proprio dell’esercizio della potestà di giurisdizione, e nei fatti implica una superiorità giurisdizionale del sinodo (col suo prôtos) sui singoli vescovi. Ai diversi livelli della gerarchia ecclesiastica è possibile individuare un prôtos le cui prerogative non si esauriscono in un semplice “primato di onore”. Alcuni teologi ortodossi contemporanei ammettono che la funzione del prôtos implichi, in effetti, esercizio di autorità e di potere. Tuttavia, teologi e canonisti sono restii a inquadrare tale fenomeno nel paradigma della distinzione tra potestà di ordine e potestà di giurisdizione. Questa distinzione, in effetti, consente di concepire gradi differenti di giurisdizione nonostante la consacrazione episcopale sia la medesima per tutti i vescovi. Il 34° Canone Apostolico presenta i rapporti fra prôtos e vescovi della provincia nei termini di un reciproco condizionamento generatore di concordia (omónoia). In questo contesto, il ruolo del prôtos implica autorità e potere, che nella tradizione ecclesiastica sia orientale che latina sono concepiti come servizio (diakonía, ministerium). Questa comune concezione del potere come servizio può essere considerata un punto di partenza nella ricerca di una intepretazione e di una pratica del primato accettabili sotto il profilo ecumenico.

'La distinzione tra potestà di ordine e potestà di giurisdizione nella tradizione canonica bizantina’

Condorelli O
2018-01-01

Abstract

In the canon law of the Western Church, the formalization of the distinction between potestas ordinis and potestas iurisdictionis goes back to the scientific reflections inaugurated in the twelfth century. I use the word “formalization” because it was not an invention of Western canonists, but the scientific understanding of a phenomenon that belongs to the reality of the Church. In 1973, Pierre L'Huillier wrote a short article on the relationship between the power of order and of jurisdiction in the Eastern tradition. According to the author, both the canonical and theological tradition of the Eastern Churches recognize the distinction between the power of order and of jurisdiction, but they emphasize the connection between them, without confusing the two aspects of sacred power. It seems to me, however, that the Orthodox canonical science is not usual to make use of this distinction as a key to interpretation of the nature and exercise of sacred power. One exception is Nikodim Milasch. In the book Das Kirchenrecht der morgenländischen der Kirche (1990; German transl. 1905) he adopted the pattern of the tria munera and distinguished ecclesiastical power into three branches: the power of order, of jurisdiction, of teaching. The Eastern tradition emphasizes the connection between the two powers. This connection is evident if we consider the sacramental roots of the functions of governing and sanctifying that the bishop is called to exercise. The liturgy provides evidence of this, as we can see, for example, in the ritual of the episcopal consecration handed down from Traditio Apostolica. The liturgy expresses the awareness of the Church that the bishop holds a duplicate function: a religious function (divine worship and administration of sacraments), represented by the high priesthood, and the government of the community of the faithful. Some evidence shows that the distinction between order and jurisdiction was a reality in the experience and consciousness of the ancient Church. The sacramental effects of the cheirotonía remain even where there are changes in the sphere of jurisdiction (for example in the case of the transfer of a bishop). The can. 18 of the Council of Antioch regulates a case which clearly manifests the canonical awareness of the distinction between the power of order and of jurisdiction in the early Church. The canon foresees the hypothesis that a bishop can not take possession of the eparchy for which he was ordained, for the refusal of the people or for other reasons not related to him. The canon states that he will maintain the honour (timé) and the service (leitourghía), but should not interfere in the affairs of the eparchy while he is waiting for the synod to decide on his fate. The bishop, therefore, retains the prerogatives of the power of order, without being allowed to exercise the power of jurisdiction. The Orthodox tradition uses to affirm the “essential equality of bishops”: it derives from their episcopal consecration, which is both the source of the power of order and of the power of jurisdiction. For this reason it is usual to deny the existence of a supraepiscopal power: it does not exist, because there is not a degree of order higher than that of the episcopate. We are facing, in other words, the problem of the existence and nature of the primacy in the Church, that is of a higher power (at different levels) than the power that each bishop exerts in his own diocese. The analysis of the Sacred Canons and the interpretations of the canonists of the classical age show that the ecclesiastical organization is structured according to a hierarchy of jurisdiction. The synods are conceived as structures that produce legal rules that the bishops and the Churches must observe; synods judge, condemn, excommunicate, depose. In short, the authority of the synod is placed on the level of the exercise of the power of government, and in fact implies a jurisdictional superiority of the synod (with its prôtos) on the individual bishops. At the different levels of the hierarchy it is possible to determine a prôtos whose prerogatives can not be reduced to a simple “primacy of honour”. Some contemporary Orthodox theologians admit that the function of the prôtos implies, in fact, exercise of authority and power. Nevertheless, theologians and canonists are reluctant to frame this phenomenon in the paradigm of the distinction between the power of order and the power of jurisdiction. This distinction, in fact, allows to conceive different degrees of jurisdiction although the episcopal consecration is the same for all the bishops. The 34th Apostolic Canon presents the relationship between prôtos and provincial bishops in terms of a reciprocal conditioning which generates harmony (omónoia). In this context, the role of the prôtos implies authority and power, which are designed as a service (diakonía, ministerium) both in the tradition of Eastern and Western Churches. This common conception of the power of government as a service can be considered a starting point in the search for an interpretation and a practice of the primacy acceptable from the standpoint of ecumenism.
2018
9788892115767
Nella scienza canonistica latina la formalizzazione della distinzione tra potestas ordinis e potestas iurisdictionis risale alle riflessioni scientifiche inaugurate nel secolo XII. Uso la parola “formalizzazione” perché non si tratta di una invenzione dei canonisti occidentali, ma della comprensione scientifica di un fenomeno che appartiene alla realtà della Chiesa. Nel 1973, Pierre L’Huillier dedicava un breve articolo al rapporto tra potestà di ordine e di giurisdizione nella tradizione orientale. Secondo l’autore, anche la tradizione canonica e teologica orientale riconosce la distinzione tra potestà di ordine e giurisdizione, ma sottolinea la loro connessione, senza confondere i due aspetti della potestà sacra. Mi sembra, tuttavia, che la scienza canonistica ortodossa non sia solita fare uso di tale distinzione come chiave di intepretazione della natura e dell’esercizio della potestà sacra. Una eccezione è costituita da Nikodim Milasch. Nel volume Das Kirchenrecht der morgenländischen Kirche (1905) egli adotta la sistematica dei tria munera e distingue la potestà ecclesiastica in tre rami: potestà di ordine, di giurisdizione, di magistero. Milasch trova che tale distinzione sia coerente con la tradizione canonica e con l’ecclesiologia ortodossa. La tradizione orientale pone l’accento sulla connessione tra le due potestà. Tale connessione è evidente se consideriamo la radice sacramentale delle funzioni di governare e di santificare che il vescovo è chiamato a esercitare. La liturgia offre testimonianza di questo aspetto, come possiamo vedere, per esempio, nel rito della consacrazione episcopale tramandato dalla Traditio apostolica. La liturgia esprime la coscienza ecclesiale che il vescovo è titolare di una duplica funzione: una funzione cultuale, rappresentata dal sommo sacerdozio, e una di governo della comunità dei fedeli. La Traditio apostolica rispecchia la prassi della Chiesa antica, nella quale la missione canonica (cioè l’elezione del vescovo) e la sua consacrazione sono contestuali. Alcuni fatti mostrano che la distinzione tra ordine e giurisdizione era una realtà presente nell’esperienza e nella coscienza della Chiesa antica. Gli effetti sacramentali della cheirotonía permangono anche dove vi siano mutamenti nella sfera della giurisdizione (per esempio nel caso del trasferimento di un vescovo). Il can. 18 del Concilio di Antiochia disciplina un caso nel quale si manifesta chiaramente la coscienza canonica della distinzione tra potestà di ordine e di giurisdizione nella Chiesa antica. Il canone prevede l’ipotesi che un vescovo non possa prendere possesso dell’ufficio nell’eparchia per la quale è stato ordinato, per il rifiuto del popolo o per altra causa a lui non addebitabile. Il canone dispone che egli conserverà l’onore (timè) e il servizio (leitourghía) ma non dovrà ingerirsi negli affari della eparchia dove si trova, in attesa che il sinodo decida sulla sua sorte. Il vescovo, dunque, mantiene le prerogative proprie della potestà di ordine, senza avere la possibilità di esercitare la potestà di giurisdizione. La tradizione ortodossa è solita affermare la “essenziale uguaglianza dei vescovi”: essa deriva appunto dalla loro consacrazione episcopale, la quale è allo stesso tempo la fonte della potestà di ordine e della potestà di giurisdizione. Per questa ragione si suole negare l’esistenza di un potere giurisdizionale sovraepiscopale: esso non esisterebbe, perché non esiste un grado dell’ordine superiore a quello episcopale. Siamo di fronte, in altri termini, al problema dell’esistenza e della natura del primato nella Chiesa, cioè di un potere superiore a quello che ciascun vescovo ha nella propria diocesi (al livello della provincia ecclesiastica, o al livello sovrametropolitano, o della Chiesa universale). L’analisi dei Sacri Canoni e delle intepretazioni dei canonisti bizantini dell’età classica mostra una articolazione della organizzazione ecclesiastica secondo una gerarchia di giurisdizione. I sinodi sono concepiti come strutture che producono norme giuridiche che i vescovi e le Chiese devono osservare; i sinodi giudicano, condannano, scomunicano, depongono. In breve, l’autorità sinodale si pone sul piano proprio dell’esercizio della potestà di giurisdizione, e nei fatti implica una superiorità giurisdizionale del sinodo (col suo prôtos) sui singoli vescovi. Ai diversi livelli della gerarchia ecclesiastica è possibile individuare un prôtos le cui prerogative non si esauriscono in un semplice “primato di onore”. Alcuni teologi ortodossi contemporanei ammettono che la funzione del prôtos implichi, in effetti, esercizio di autorità e di potere. Tuttavia, teologi e canonisti sono restii a inquadrare tale fenomeno nel paradigma della distinzione tra potestà di ordine e potestà di giurisdizione. Questa distinzione, in effetti, consente di concepire gradi differenti di giurisdizione nonostante la consacrazione episcopale sia la medesima per tutti i vescovi. Il 34° Canone Apostolico presenta i rapporti fra prôtos e vescovi della provincia nei termini di un reciproco condizionamento generatore di concordia (omónoia). In questo contesto, il ruolo del prôtos implica autorità e potere, che nella tradizione ecclesiastica sia orientale che latina sono concepiti come servizio (diakonía, ministerium). Questa comune concezione del potere come servizio può essere considerata un punto di partenza nella ricerca di una intepretazione e di una pratica del primato accettabili sotto il profilo ecumenico.
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