Il paper indaga la narrazione della malattia fisica e spirituale negli scritti di Clemente Rebora, a partire dalla sua traumatica esperienza militare sul fronte goriziano nel 1915. Il grave incidente in trincea prova duramente la fragile anima del poeta in perenne ricerca di un oltre: integro nel corpo, rischia di soccombere al trauma scivolando nella follia. Quello di Rebora è un caso di shellshock, il trauma da esplosione, una delle nevrosi belliche più comuni, che la psichiatria del tempo, compromessa con le logiche militari volte a rifornire le trincee di carne da macello, non solo non comprende fino in fondo, ma cura nei casi più difficili internando i soldati nei manicomi. Rebora vive per ben due volte questa esperienza, sebbene per brevi periodi. Nei suoi versi e nell’epistolario racconta le due metà della sua esistenza segnate dalla malattia, vissuta nel corpo e nello spirito: la nevrosi e una serpeggiante sindrome depressiva prima, l’arteriosclerosi degenerativa dopo. A fare da spartiacque è la conversione al cattolicesimo fino alla consacrazione sacerdotale. L’angoscia della morte, dalla trincea al letto dell’infermità, cambia tonalità e si trasforma radicalmente in canto poetico, l’arma per un corpo a corpo con la sofferenza, il rimedio alla solitudine e al silenzio della malattia. E quando l’ennesima paralisi toglie anche alla parola detta ogni possibilità, i versi si fanno racconto di un «martirio atrocemente opaco».
«Solo calcai il torchio»: trauma, malattia e martirio nei versi di Clemente Rebora
A. Rotondo
2020-01-01
Abstract
Il paper indaga la narrazione della malattia fisica e spirituale negli scritti di Clemente Rebora, a partire dalla sua traumatica esperienza militare sul fronte goriziano nel 1915. Il grave incidente in trincea prova duramente la fragile anima del poeta in perenne ricerca di un oltre: integro nel corpo, rischia di soccombere al trauma scivolando nella follia. Quello di Rebora è un caso di shellshock, il trauma da esplosione, una delle nevrosi belliche più comuni, che la psichiatria del tempo, compromessa con le logiche militari volte a rifornire le trincee di carne da macello, non solo non comprende fino in fondo, ma cura nei casi più difficili internando i soldati nei manicomi. Rebora vive per ben due volte questa esperienza, sebbene per brevi periodi. Nei suoi versi e nell’epistolario racconta le due metà della sua esistenza segnate dalla malattia, vissuta nel corpo e nello spirito: la nevrosi e una serpeggiante sindrome depressiva prima, l’arteriosclerosi degenerativa dopo. A fare da spartiacque è la conversione al cattolicesimo fino alla consacrazione sacerdotale. L’angoscia della morte, dalla trincea al letto dell’infermità, cambia tonalità e si trasforma radicalmente in canto poetico, l’arma per un corpo a corpo con la sofferenza, il rimedio alla solitudine e al silenzio della malattia. E quando l’ennesima paralisi toglie anche alla parola detta ogni possibilità, i versi si fanno racconto di un «martirio atrocemente opaco».I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.