Nell’ambito del sistema della giustizia internazionale penale emerge, da una parte, l’esigenza di garantire la criminalizzazione degli atti commessi in un contesto collettivo e in maniera sistematica, in una situazione, cioè, in cui non è sempre prontamente evidente il contributo del singolo individuo alla realizzazione del risultato finale , dall’altra parte, la difficoltà di punire dei crimini che sono espressione di una politica di Stato o comunque organizzata, nell’ambito della quale un individuo ritiene di contribuire alla realizzazione dei legittimi scopi del proprio Stato o di legittimi interessi (affiora una sorta di responsabilità collettiva, nel senso che ogni individuo contribuisce come parte di un tutto) . Si tratta di quelle tragiche forme di violazione dei diritti umani rappresentate dai crimini di guerra, i crimini contro l’umanità, i genocidi, come quelli che hanno insanguinato la storia degli ultimi anni del secolo scorso nell’ex Yugoslavia e in Ruanda, e che continuano a mietere vittime in paesi come la Repubblica Democratica del Congo, l’Uganda o il Dafur: le più gravi aggressioni contro i diritti umani, che provengono da autorità riconosciute e in situazioni di conflitto sia internazionale, sia interno .In tale contesto in relazione ai leader, a coloro che assumono una posizione di comando o, comunque, di potere nell’ambito delle organizzazione militari o statali, si è assistito, a partire dal secolo scorso, all’emergere di due fenomeni antagonisti: da una parte ad una graduale affermazione del principio della responsabilità penale personale, quale reazione contro l’impunità deresponsabilizzante garantita dalla teoria dell’atto di Stato; dall’altra, all’emergere di meccanismi di imputazione soggettiva elastici ed evanescenti, connotati in senso simbolico–espressivo e lontani da un rimprovero individualizzato nei confronti dell’agente, nell’ambito di un sistema penale internazionale orientato in senso general-preventivo, nella componente intimidatorio-dissuasiva , se non addirittura volto a soddisfare le esigenze di catarsi collettiva dinanzi allo spettacolo delle atrocità commesse. Nel presente lavoro si cerca di tracciare questa duplice e contraddittoria evoluzione del principio della responsabilità personale nel diritto internazionale penale , alla luce della giurisprudenza interna-zionale in materia, in particolare dei Tribunali di Norimberga, dei Tribunali per i crimini di guerra dell'ex Jugoslavia e del Ruanda, e della Corte Penale Internazionale. In particolare sarà esaminata l'applicazione della teoria della joint criminal enterprise da parte della giurisprudenza del TPY e del TPR e la giurisprudenza della CPI in materia di autoria e di autoria mediata.
La responsabilità dei leader nel diritto e nella giurisprudenza internazionale penale
MAUGERI, Anna Maria
2011-01-01
Abstract
Nell’ambito del sistema della giustizia internazionale penale emerge, da una parte, l’esigenza di garantire la criminalizzazione degli atti commessi in un contesto collettivo e in maniera sistematica, in una situazione, cioè, in cui non è sempre prontamente evidente il contributo del singolo individuo alla realizzazione del risultato finale , dall’altra parte, la difficoltà di punire dei crimini che sono espressione di una politica di Stato o comunque organizzata, nell’ambito della quale un individuo ritiene di contribuire alla realizzazione dei legittimi scopi del proprio Stato o di legittimi interessi (affiora una sorta di responsabilità collettiva, nel senso che ogni individuo contribuisce come parte di un tutto) . Si tratta di quelle tragiche forme di violazione dei diritti umani rappresentate dai crimini di guerra, i crimini contro l’umanità, i genocidi, come quelli che hanno insanguinato la storia degli ultimi anni del secolo scorso nell’ex Yugoslavia e in Ruanda, e che continuano a mietere vittime in paesi come la Repubblica Democratica del Congo, l’Uganda o il Dafur: le più gravi aggressioni contro i diritti umani, che provengono da autorità riconosciute e in situazioni di conflitto sia internazionale, sia interno .In tale contesto in relazione ai leader, a coloro che assumono una posizione di comando o, comunque, di potere nell’ambito delle organizzazione militari o statali, si è assistito, a partire dal secolo scorso, all’emergere di due fenomeni antagonisti: da una parte ad una graduale affermazione del principio della responsabilità penale personale, quale reazione contro l’impunità deresponsabilizzante garantita dalla teoria dell’atto di Stato; dall’altra, all’emergere di meccanismi di imputazione soggettiva elastici ed evanescenti, connotati in senso simbolico–espressivo e lontani da un rimprovero individualizzato nei confronti dell’agente, nell’ambito di un sistema penale internazionale orientato in senso general-preventivo, nella componente intimidatorio-dissuasiva , se non addirittura volto a soddisfare le esigenze di catarsi collettiva dinanzi allo spettacolo delle atrocità commesse. Nel presente lavoro si cerca di tracciare questa duplice e contraddittoria evoluzione del principio della responsabilità personale nel diritto internazionale penale , alla luce della giurisprudenza interna-zionale in materia, in particolare dei Tribunali di Norimberga, dei Tribunali per i crimini di guerra dell'ex Jugoslavia e del Ruanda, e della Corte Penale Internazionale. In particolare sarà esaminata l'applicazione della teoria della joint criminal enterprise da parte della giurisprudenza del TPY e del TPR e la giurisprudenza della CPI in materia di autoria e di autoria mediata.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.