PROCNE SULLA “ROCCA ROTONDA” Il gruppo scultoreo che vede Procne e il figlioletto Itys quali protagonisti, rinvenuto sull’Acropoli nel 1836, è stato oggetto sin dalla scoperta di un serrato dibattito relativo alla sua natura di originale greco, alla attribuzione, ed inoltre al soggetto rappresentato, controversie, queste, in gran parte risolte dall’analisi delle caratteristiche formali e stilistiche, ma anche, e soprattutto, grazie ad una breve notazione di Pausania, che menziona tanto i personaggi scolpiti, quanto l’artefice del gruppo, ossia Alkamenes. Il Periegeta, infatti, nel suo cammino dal santuario di Artemide Brauronia verso Est, lungo il fianco settentrionale del Partenone, dopo avere ricordato per la loro rilevanza storica o politica alcuni anathemata, quali la statua di Timoteo, figlio di Conone, e quella dello stesso Conone, annotava: “ Alkamenes ha dedicato Procne, che si macchiò del ben noto delitto, e il figlio Itys”, Questa collocazione del gruppo lungo il lato nord del Partenone, quasi di fronte alla loggia delle Cariatidi in uno spazio complesso, non fu dettata, a mio avviso, da semplice casualità, ma al contrario essa fu volutamente perseguita e sostenuta da un’ampia gamma di motivazioni di ordine religioso e ideologico; il gruppo scultoreo di Alkamenes appare, infatti, nella geografia cultuale dell’Acropoli come la tessera di un più ampio mosaico, volto a ricostruire la storia mitica di Atene, e, in particolare, la mappa dell’intera stirpe autoctona: è sulla rocca di Atena che Erittonio nasce, Eretteo muore, che le figlie di Cecrope incontrano la loro fine e che Creusa vive il proprio destino di sofferenza. Attraverso gli edifici dell’Acropoli il mondo cultuale di Atene viene definito e sancito da dei ed eroi, e a questo progetto non è estranea, ma, al contrario, è determinante, la stirpe di Eretteo; la statua di Procne doveva apparire, pertanto, agli occhi dei visitatori dell’Acropoli non quale elemento isolato, avulso dal contesto che la ospitava, ma al contrario, come un tassello cardine nel progetto di codificazione della storia sacra della città. Innanzitutto proprio il rapporto tassonomico fra la statua di Procne, figlia di Pandion, a sua volta discendente di Eretteo, e l’edificio che da quest’ultimo prende nome appare determinante e, per così dire, “significante”. Se, infatti, l’Eretteo fu edificato in un periodo che l’analisi delle fonti letterarie ed epigrafiche permette di collocare fra il 423 e il 406/5, è pur vero, tuttavia, che l’area scelta per il nuovo edificio cultuale era impregnata della memoria di culti antichissimi, fra i quali quello dello stesso re autoctono, allevato e posto, secondo la menzione iliadica, dalla dea Atena “ dentro al suo ricco tempio”. Tanto le fonti letterarie quanto i dati archeologici concorrono nel segnalare l’antichità del culto di Eretteo, onorato sull’Acropoli probabilmente in aree sacre non ancora monumentalizzate, dedicate all’eroe sin dall’età geometrica, certamente dalla metà del V a.C., come testimoniato da Erodoto e da una epigrafe dedicatoria dello stesso scorcio temporale in onore di Poseidon/Erechtheus, che costituisce la più antica testimonianza epigrafica del culto congiunto di Eretteo e del dio del mare. La topografia sacra dell’Acropoli, inoltre, poteva suggerire altre possibili connessioni col mito delle Pandionidi, anche al di là del lato settentrionale della terrazza dove sorgeva il gruppo di Procne; a poca distanza, infatti, dal prospetto principale del Partenone, all’altezza dell’angolo sud-est, sorgeva un piccolo heroon in onore di Pandion identificato nel cosiddetto edificio IV e datato intorno al 440-430 a.C., che ospitava la tomba stessa del re ateniese. Se estendiamo, poi, l’analisi del contesto nel quale Alkamenes dedicò il gruppo statuario, e rivolgiamo la nostra attenzione all’apparato figurativo dell’Acropoli periclea ed in particolare al tempio della Parthenos, esso appare come una vera e propria orchestrazione polifonica, della quale, ancora una volta, un elemento di non secondaria importanza è l’esaltazione della autoctonia di Atene, attraverso le vicende, anche tragiche, dei suoi protagonisti. Appena varcati i Propilei si offriva, infatti, alla vista degli Ateniesi il frontone occidentale del Partenone, sul quale Atena e Poseidone gareggiavano per il possesso dell’Attica, alla presenza dei venerandi re dell’Attica. Il tema dell’autoctonia di Atene, a parere di Pollit, pervadeva l’intera composizione ed era esaltato dalla presenza dei re primordiali e dei loro discendenti, di Cecrope con la figlia Pandroso e il figlio Erisittonio, di Eretteo-Erittonio con le Eretteidi, di Creusa con il giovane Ione, di Pandion secondo l’ipotesi della Barringer. Né si trattava di un caso isolato, sul lato orientale del tempio, nella più arcaica e religiosa porzione nord del fregio est, in cui erano Atena con Efesto, suo pàredro, Poseidon, suo contendente, Apollo patrono della stirpe, con la sorella Artemide e, infine, Afrodite, gli Ateniesi si ritrovavano nuovamente in presenza dei loro mitici sovrani Cecrope, Erittonio, Pandion ed Egeo, che componevano il gruppo degli eroi eponimi. Se dunque, come abbiamo osservato, molteplici allusioni ai re autoctoni caratterizzavano il lato settentrionale della terrazza dell’Acropoli, e a questa logica era subordinata anche la decorazione scultorea dei lati orientale ed occidentale del Partenone, ad essa non sembra sottrarsi, nella costruzione di un sistema semantico coerente, neppure l’analisi del lato meridionale del tempio, dove i quattro re autoctoni erano rappresentati nell’ambito di vicende mitiche, che coinvolgevano anche membri delle loro famiglie – fra cui Procne e Philomela- e che interessavano i rapporti di Atene con la Tracia e con la Tessaglia di un passato lontano. È, dunque, in un contesto politico-culturale che aveva assistito dalla fine delle guerre mediche ad un processo di enfatizzazione del mito dell’autoctonia nelle sfere politico-propagandistica, artistico-monumentale e letteraria, ed in un luogo -l’Acropoli- a cui la polis periclea aveva assegnato attraverso i principali edifici di culto il compito di raccontare la propria ontogenesi, ad affermare una volta di più, nell’imminenza dello scontro di potere con Sparta, l’indispensabile topica politica che definiva gli Ateniesi, unici fra i Greci perché nati da progenitori autoctoni, e in uno spazio, dove gli anathemata personali erano sapientemente regolati e rispondevano ad un programma politico avallato dallo stato, che la dedica di Alkamenes trova la sua ragione d’essere. La seconda parte dell’articolo affronta, infine, il problema della scelta da parte di Alkamenes di tradurre in scultura un mito così crudamente spietato, dalle connotazioni selvagge che vedeva la Pandionide responsabile dell’infanticidio di Itys. È nell’ambito di un confronto fra civiltà, quella greca e quella barbara, tracia in particolare, che, a mio avviso, vanno cercate le ragioni della scelta tematica dello scultore. Si trattava, in quell’ambito cronologico, di un’iconografia che traeva la sua ispirazione dalle dure esperienze dei Greci agli inizi del V secolo, quando realtà tracie e medie si legarono in stretto nodo: dal consolidarsi, nel 492 a.C. di una satrapia persiana in Tracia, che aveva aperto ai nemici la strada dell’Ellade fino alla valle di Tempe, all’ampia partecipazione di truppe tracie reclutate da Serse nel 480, alla coalizione di Traci e Persiani che combatterono fianco a fianco contro gli Ateniesi nel bacino dello Strìmone nella battaglia cimoniana che porterà alla conquista di Eìon nel 476, all’intervento dei Traci settentrionali in aiuto dei Persiani, nella primavera del 465, fino all’atto conclusivo segnato dalla sconfitta a Drabesco, nel 464, del figlio di Milziade, nel tentativo di conquistare la ricca regione del Pangeo, episodio in cui circa diecimila Ateniesi vennero trucidati e che segnò il fallimento del tentativo di fondare una città fortificata presso Enneahodoi. In evidente sincronismo con questi eventi bellici a partire dagli inizi del V secolo a.C. si fissò il ritratto di Tereo e l’ambientazione divenne qualificante. Se accettiamo per il gruppo statuario di Procne e Itys una cronologia compresa fa il 430 ed il 420 a.C., ancora una volta, la situazione storico-politica contemporanea potrebbe offrire interessanti spunti, da valutare con attenzione, in quanto la creazione di Alkamenes si troverebbe nella condizione di risentire dei rinnovati rapporti fra Ateniesi e gli Odrisi negli anni cruciali dell’inizio della guerra del Peloponneso, quelli del cosiddetto conflitto archidamico. Avvenuto, infatti, intorno al 440 a.C. il passaggio dei poteri da Tere a Sitalce, i rapporti tra i due popoli erano sostanzialmente pacifici, per motivi, per così dire, strategici; se, infatti, da una parte, agli Odrisi il clima di non belligeranza consentiva di continuare nella loro politica espansionistica verso Occidente, dall’altra, in quegli anni, era importantissimo sia per Atene che per Sparta avere appoggi politici nella zona della Calcidica. Questa esigenza si tradusse in un trattato di pace siglato proprio nell’anno di inizio della guerra del Peloponneso nel 431, e considerato un vero e proprio capolavoro della politica estera periclea nello scacchiere tracio–macedonico. Sin dagli esordi, tuttavia, l’accordo con Sitalce mostrò la sua precarietà, infatti il re degli Odrisi, nonostante le continue ambascerie che ne sollecitavano l’intervento, non si mosse e, l’unico atto per dimostrare il suo atteggiamento filo ateniese, prima dell’abbandono dell’alleanza nel 429 a.C., fu la cattura e la consegna di una delegazione spartana diretta in Asia presso il Re. Non è difficile immaginare che già nel 431 a.C. la prospettiva di un accordo con i Traci abbia provocato ad Atene un ampio dibattito, fra quanti, sostenitori della politica di Pericle, lo propugnavano, e quelli che, invece, strenui oppositori dell’uomo di stato avvertivano il pericolo di un’alleanza con un popolo barbaro ritenuto infido e nutrivano il timore che l’arrivo di Sitalce, con l’apparente scopo di portare aiuto agli Ateniesi, servisse soltanto ad estendere il suo regno, che già occupava la parte orientale della penisola balcanica I timori di coloro, che, al contrario, osteggiavano un’alleanza col barbaro si possono cogliere, a parere di alcuni studiosi, nella messa in scena da parte di Sofocle del suo Tereo negli anni precedenti al trattato, o, più specificamente, dopo il tradimento del 429. Il Tereo è una tragedia che propone tutti i topoi della barbarie: dalla violenza alla follia, dallo stupro all’infanticidio, alla tecnofagia. La “ grecità”, intesa come summa di valori culturali, civili, religiosi sembra annullarsi in quel mondo di barbarie. Tanto Sofocle quanto Alkamenes rappresentano Procne, figlia di Pandione, capostipite di una tribù ateniese, partecipe della violenza di Tereo. Ciò che attua la trasformazione di Procne è la sua condizione di straniera in ambito barbaro, di donna costretta in un’ambito non suo; Procne partecipa dell’universo tracio, anzi lo subisce sino alle conseguenze più estreme Se la datazione del Tereo è tuttora oggetto di discussioni e si preferisce mantenere una cronologia ampia, compresa fra gli anni ‘30 e ’20 del V sec. a.C., né parimenti appare possibile proporre una datazione ad annum per il gruppo scultoreo di Alkamenes, entrambi i capolavori sembrerebbero farsi testimoni di una medesima temperie politico-sociale-culturale; né, a mio parere, costituirebbe una differenza qualificante il fatto che essi siano stati creati nel clima di tensioni e preoccupazioni che precedettero la sigla dell’accordo con Sitalce, oppure, che, al contrario, siano testimoni e interpreti di quel sentimento di delusione e di ostilità verso i Traci, passati a tradimento dalla parte di Perdicca. Alkamenes sarebbe, dunque, interprete di quelli che si oppongono alla politica di alleanza con i Traci, realizzando un gruppo scultoreo che, in questa luce, costituirebbe quasi un monito per coloro i quali, convinti della vittoria su Sparta, ed in cerca di alleanze forti, volevano affidare le sorti di Atene ai barbari, facendo tramontare così ogni speranza di intesa con i Lacedemoni, o che, al contrario, lo avevano già fatto. In questa prospettiva il gruppo scultoreo, che raffigurava Procne nel momento in cui stava per infliggere il colpo mortale al figlioletto, poteva apparire come una riflessione dolorosa sulle incombenti minacce che rischiavano di minare alla sua radice più vera l’ethos della polis.

Procne sulla "Rocca Rotonda"

GIUDICE, ELVIA MARIA LETIZIA
2008-01-01

Abstract

PROCNE SULLA “ROCCA ROTONDA” Il gruppo scultoreo che vede Procne e il figlioletto Itys quali protagonisti, rinvenuto sull’Acropoli nel 1836, è stato oggetto sin dalla scoperta di un serrato dibattito relativo alla sua natura di originale greco, alla attribuzione, ed inoltre al soggetto rappresentato, controversie, queste, in gran parte risolte dall’analisi delle caratteristiche formali e stilistiche, ma anche, e soprattutto, grazie ad una breve notazione di Pausania, che menziona tanto i personaggi scolpiti, quanto l’artefice del gruppo, ossia Alkamenes. Il Periegeta, infatti, nel suo cammino dal santuario di Artemide Brauronia verso Est, lungo il fianco settentrionale del Partenone, dopo avere ricordato per la loro rilevanza storica o politica alcuni anathemata, quali la statua di Timoteo, figlio di Conone, e quella dello stesso Conone, annotava: “ Alkamenes ha dedicato Procne, che si macchiò del ben noto delitto, e il figlio Itys”, Questa collocazione del gruppo lungo il lato nord del Partenone, quasi di fronte alla loggia delle Cariatidi in uno spazio complesso, non fu dettata, a mio avviso, da semplice casualità, ma al contrario essa fu volutamente perseguita e sostenuta da un’ampia gamma di motivazioni di ordine religioso e ideologico; il gruppo scultoreo di Alkamenes appare, infatti, nella geografia cultuale dell’Acropoli come la tessera di un più ampio mosaico, volto a ricostruire la storia mitica di Atene, e, in particolare, la mappa dell’intera stirpe autoctona: è sulla rocca di Atena che Erittonio nasce, Eretteo muore, che le figlie di Cecrope incontrano la loro fine e che Creusa vive il proprio destino di sofferenza. Attraverso gli edifici dell’Acropoli il mondo cultuale di Atene viene definito e sancito da dei ed eroi, e a questo progetto non è estranea, ma, al contrario, è determinante, la stirpe di Eretteo; la statua di Procne doveva apparire, pertanto, agli occhi dei visitatori dell’Acropoli non quale elemento isolato, avulso dal contesto che la ospitava, ma al contrario, come un tassello cardine nel progetto di codificazione della storia sacra della città. Innanzitutto proprio il rapporto tassonomico fra la statua di Procne, figlia di Pandion, a sua volta discendente di Eretteo, e l’edificio che da quest’ultimo prende nome appare determinante e, per così dire, “significante”. Se, infatti, l’Eretteo fu edificato in un periodo che l’analisi delle fonti letterarie ed epigrafiche permette di collocare fra il 423 e il 406/5, è pur vero, tuttavia, che l’area scelta per il nuovo edificio cultuale era impregnata della memoria di culti antichissimi, fra i quali quello dello stesso re autoctono, allevato e posto, secondo la menzione iliadica, dalla dea Atena “ dentro al suo ricco tempio”. Tanto le fonti letterarie quanto i dati archeologici concorrono nel segnalare l’antichità del culto di Eretteo, onorato sull’Acropoli probabilmente in aree sacre non ancora monumentalizzate, dedicate all’eroe sin dall’età geometrica, certamente dalla metà del V a.C., come testimoniato da Erodoto e da una epigrafe dedicatoria dello stesso scorcio temporale in onore di Poseidon/Erechtheus, che costituisce la più antica testimonianza epigrafica del culto congiunto di Eretteo e del dio del mare. La topografia sacra dell’Acropoli, inoltre, poteva suggerire altre possibili connessioni col mito delle Pandionidi, anche al di là del lato settentrionale della terrazza dove sorgeva il gruppo di Procne; a poca distanza, infatti, dal prospetto principale del Partenone, all’altezza dell’angolo sud-est, sorgeva un piccolo heroon in onore di Pandion identificato nel cosiddetto edificio IV e datato intorno al 440-430 a.C., che ospitava la tomba stessa del re ateniese. Se estendiamo, poi, l’analisi del contesto nel quale Alkamenes dedicò il gruppo statuario, e rivolgiamo la nostra attenzione all’apparato figurativo dell’Acropoli periclea ed in particolare al tempio della Parthenos, esso appare come una vera e propria orchestrazione polifonica, della quale, ancora una volta, un elemento di non secondaria importanza è l’esaltazione della autoctonia di Atene, attraverso le vicende, anche tragiche, dei suoi protagonisti. Appena varcati i Propilei si offriva, infatti, alla vista degli Ateniesi il frontone occidentale del Partenone, sul quale Atena e Poseidone gareggiavano per il possesso dell’Attica, alla presenza dei venerandi re dell’Attica. Il tema dell’autoctonia di Atene, a parere di Pollit, pervadeva l’intera composizione ed era esaltato dalla presenza dei re primordiali e dei loro discendenti, di Cecrope con la figlia Pandroso e il figlio Erisittonio, di Eretteo-Erittonio con le Eretteidi, di Creusa con il giovane Ione, di Pandion secondo l’ipotesi della Barringer. Né si trattava di un caso isolato, sul lato orientale del tempio, nella più arcaica e religiosa porzione nord del fregio est, in cui erano Atena con Efesto, suo pàredro, Poseidon, suo contendente, Apollo patrono della stirpe, con la sorella Artemide e, infine, Afrodite, gli Ateniesi si ritrovavano nuovamente in presenza dei loro mitici sovrani Cecrope, Erittonio, Pandion ed Egeo, che componevano il gruppo degli eroi eponimi. Se dunque, come abbiamo osservato, molteplici allusioni ai re autoctoni caratterizzavano il lato settentrionale della terrazza dell’Acropoli, e a questa logica era subordinata anche la decorazione scultorea dei lati orientale ed occidentale del Partenone, ad essa non sembra sottrarsi, nella costruzione di un sistema semantico coerente, neppure l’analisi del lato meridionale del tempio, dove i quattro re autoctoni erano rappresentati nell’ambito di vicende mitiche, che coinvolgevano anche membri delle loro famiglie – fra cui Procne e Philomela- e che interessavano i rapporti di Atene con la Tracia e con la Tessaglia di un passato lontano. È, dunque, in un contesto politico-culturale che aveva assistito dalla fine delle guerre mediche ad un processo di enfatizzazione del mito dell’autoctonia nelle sfere politico-propagandistica, artistico-monumentale e letteraria, ed in un luogo -l’Acropoli- a cui la polis periclea aveva assegnato attraverso i principali edifici di culto il compito di raccontare la propria ontogenesi, ad affermare una volta di più, nell’imminenza dello scontro di potere con Sparta, l’indispensabile topica politica che definiva gli Ateniesi, unici fra i Greci perché nati da progenitori autoctoni, e in uno spazio, dove gli anathemata personali erano sapientemente regolati e rispondevano ad un programma politico avallato dallo stato, che la dedica di Alkamenes trova la sua ragione d’essere. La seconda parte dell’articolo affronta, infine, il problema della scelta da parte di Alkamenes di tradurre in scultura un mito così crudamente spietato, dalle connotazioni selvagge che vedeva la Pandionide responsabile dell’infanticidio di Itys. È nell’ambito di un confronto fra civiltà, quella greca e quella barbara, tracia in particolare, che, a mio avviso, vanno cercate le ragioni della scelta tematica dello scultore. Si trattava, in quell’ambito cronologico, di un’iconografia che traeva la sua ispirazione dalle dure esperienze dei Greci agli inizi del V secolo, quando realtà tracie e medie si legarono in stretto nodo: dal consolidarsi, nel 492 a.C. di una satrapia persiana in Tracia, che aveva aperto ai nemici la strada dell’Ellade fino alla valle di Tempe, all’ampia partecipazione di truppe tracie reclutate da Serse nel 480, alla coalizione di Traci e Persiani che combatterono fianco a fianco contro gli Ateniesi nel bacino dello Strìmone nella battaglia cimoniana che porterà alla conquista di Eìon nel 476, all’intervento dei Traci settentrionali in aiuto dei Persiani, nella primavera del 465, fino all’atto conclusivo segnato dalla sconfitta a Drabesco, nel 464, del figlio di Milziade, nel tentativo di conquistare la ricca regione del Pangeo, episodio in cui circa diecimila Ateniesi vennero trucidati e che segnò il fallimento del tentativo di fondare una città fortificata presso Enneahodoi. In evidente sincronismo con questi eventi bellici a partire dagli inizi del V secolo a.C. si fissò il ritratto di Tereo e l’ambientazione divenne qualificante. Se accettiamo per il gruppo statuario di Procne e Itys una cronologia compresa fa il 430 ed il 420 a.C., ancora una volta, la situazione storico-politica contemporanea potrebbe offrire interessanti spunti, da valutare con attenzione, in quanto la creazione di Alkamenes si troverebbe nella condizione di risentire dei rinnovati rapporti fra Ateniesi e gli Odrisi negli anni cruciali dell’inizio della guerra del Peloponneso, quelli del cosiddetto conflitto archidamico. Avvenuto, infatti, intorno al 440 a.C. il passaggio dei poteri da Tere a Sitalce, i rapporti tra i due popoli erano sostanzialmente pacifici, per motivi, per così dire, strategici; se, infatti, da una parte, agli Odrisi il clima di non belligeranza consentiva di continuare nella loro politica espansionistica verso Occidente, dall’altra, in quegli anni, era importantissimo sia per Atene che per Sparta avere appoggi politici nella zona della Calcidica. Questa esigenza si tradusse in un trattato di pace siglato proprio nell’anno di inizio della guerra del Peloponneso nel 431, e considerato un vero e proprio capolavoro della politica estera periclea nello scacchiere tracio–macedonico. Sin dagli esordi, tuttavia, l’accordo con Sitalce mostrò la sua precarietà, infatti il re degli Odrisi, nonostante le continue ambascerie che ne sollecitavano l’intervento, non si mosse e, l’unico atto per dimostrare il suo atteggiamento filo ateniese, prima dell’abbandono dell’alleanza nel 429 a.C., fu la cattura e la consegna di una delegazione spartana diretta in Asia presso il Re. Non è difficile immaginare che già nel 431 a.C. la prospettiva di un accordo con i Traci abbia provocato ad Atene un ampio dibattito, fra quanti, sostenitori della politica di Pericle, lo propugnavano, e quelli che, invece, strenui oppositori dell’uomo di stato avvertivano il pericolo di un’alleanza con un popolo barbaro ritenuto infido e nutrivano il timore che l’arrivo di Sitalce, con l’apparente scopo di portare aiuto agli Ateniesi, servisse soltanto ad estendere il suo regno, che già occupava la parte orientale della penisola balcanica I timori di coloro, che, al contrario, osteggiavano un’alleanza col barbaro si possono cogliere, a parere di alcuni studiosi, nella messa in scena da parte di Sofocle del suo Tereo negli anni precedenti al trattato, o, più specificamente, dopo il tradimento del 429. Il Tereo è una tragedia che propone tutti i topoi della barbarie: dalla violenza alla follia, dallo stupro all’infanticidio, alla tecnofagia. La “ grecità”, intesa come summa di valori culturali, civili, religiosi sembra annullarsi in quel mondo di barbarie. Tanto Sofocle quanto Alkamenes rappresentano Procne, figlia di Pandione, capostipite di una tribù ateniese, partecipe della violenza di Tereo. Ciò che attua la trasformazione di Procne è la sua condizione di straniera in ambito barbaro, di donna costretta in un’ambito non suo; Procne partecipa dell’universo tracio, anzi lo subisce sino alle conseguenze più estreme Se la datazione del Tereo è tuttora oggetto di discussioni e si preferisce mantenere una cronologia ampia, compresa fra gli anni ‘30 e ’20 del V sec. a.C., né parimenti appare possibile proporre una datazione ad annum per il gruppo scultoreo di Alkamenes, entrambi i capolavori sembrerebbero farsi testimoni di una medesima temperie politico-sociale-culturale; né, a mio parere, costituirebbe una differenza qualificante il fatto che essi siano stati creati nel clima di tensioni e preoccupazioni che precedettero la sigla dell’accordo con Sitalce, oppure, che, al contrario, siano testimoni e interpreti di quel sentimento di delusione e di ostilità verso i Traci, passati a tradimento dalla parte di Perdicca. Alkamenes sarebbe, dunque, interprete di quelli che si oppongono alla politica di alleanza con i Traci, realizzando un gruppo scultoreo che, in questa luce, costituirebbe quasi un monito per coloro i quali, convinti della vittoria su Sparta, ed in cerca di alleanze forti, volevano affidare le sorti di Atene ai barbari, facendo tramontare così ogni speranza di intesa con i Lacedemoni, o che, al contrario, lo avevano già fatto. In questa prospettiva il gruppo scultoreo, che raffigurava Procne nel momento in cui stava per infliggere il colpo mortale al figlioletto, poteva apparire come una riflessione dolorosa sulle incombenti minacce che rischiavano di minare alla sua radice più vera l’ethos della polis.
2008
scultura greca; iconologia
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