Nella tradizione occidentale cristiana il luogo a cui rendere culto a Dio si è costantemente identificato con la chiesa. E anche nella cultura ebraica la sinagoga ha costituito il luogo privilegiario, prima ancora che del culto, della stessa identità di un popolo. Pertanto, la dottrina e la legislazione sull’argomento hanno costantemente fatto riferimento più che al concetto di luogo di culto (caro peraltro alla tradizione francese) , a quello più determinato di edificio di culto. In un certo senso, la specie è divenuta identificativa del genere. Ma tale “sineddoche giuridica” è ora posta in crisi. Invero, l’identificazione fra luogo ed edificio si rivela viepiù insufficiente per qualificare quei fenomeni religiosi prima poco diffusi, ma che ora assumono sempre maggiore rilevanza nel nostro ordinamento, in cui il culto non è reso in un edificio; oppure è reso in strutture immobiliari in cui si rende anche culto ma che in realtà hanno una funzione polivalente (come la moschea). Tutto questo parrebbe mettere in discussione le certezze sinora raggiunte dalla dottrina sulla qualificazione di un edificio di culto. Invero, cambiando il sostrato sostanziale, essendosi transitati nella realtà sociale dal più specifico edificio al maggiormente comprensivo luogo come spazio entro cui i fedeli di una confessione possono esercitare i loro riti, si richiede anche di darne una definizione e qualificazione giuridicamente rilevanti che non possono limitarsi a quelle sinora formalizzate per, appunto, gli edifici di culto, e che ugualmente garantiscano la libertà religiosa di cui il culto è espressione visibile. Posta la varietà di modi, di tempi, di luoghi (non necessariamente limitati a un edificio) attraverso cui il culto può esplicarsi, soprattutto nelle “nuove” confessioni religiose, pare senz’altro opportuna una valorizzazione del criterio autoreferenziale. Solo la specifica confessione religiosa può determinare quale sia, nel suo mondo di pensiero e di azione, e a garanzia e promozione della propria identità, il luogo adatto per rendere culto a un Essere che non dipende da altro, che ha la propria ragione in se stesso, e da cui in qualche modo ci si sente dipendenti, o comunque in relazione. E, in questo senso, tale criterio appare come una estrinsecazione del principio di sussidiarietà che con le leggi Bassanini e la riforma del Titolo V della Costituzione è divenuto uno dei principi fondanti i rapporti intersoggettivi: infatti, con il rilievo dato alle determinazioni confessionali la ripartizione gerarchica delle competenze appare spostata verso gli enti più prossimi alla persona e, pertanto, più vicini ai bisogni reali del territorio. Ma nel momento in cui tale determinazione interferisca con il nostro ordinamento, attribuendo questo alla qualifica “luogo di culto” specifiche prerogative giuridicamente rilevanti, è giocoforza che l’autorità civile incroci la qualifica religiosa con un principio di effettività, attraverso un’indagine diretta ad applicare un principio di verità e di corrispondenza tra quanto la confessione dice di sé e del suo luogo di culto, e l’effettiva funzione svolta da questo. Un controllo limitato a valutare l’esistenza di una preminente attività di culto, un criterio cioè, se non del tutto predefinito, senz’altro oggettivizzabile, così da permettere un più agevole controllo di legittimità sostanziale in caso di un eventuale rifiuto del riconoscimento di tale qualifica, perlomeno sotto il profilo dell’eccesso di potere (con la logica difficoltà di qualificare ciò che si intenda per religione e per attività di culto). Il possibile conflitto potrebbe peraltro essere prevenuto, o ridotto, mediante una procedimentalizzazione delle relazioni tra le autorità competenti e la confessione religiosa, qualora la disciplina sui luoghi di culto abbia applicazione sulla base di intese tra i soggetti ora richiamati. In tal modo si coordinerebbero e comporrebbero gli interessi dell’amministrazione e quelli della confessione per pervenire a un risultato che, pur con possibili sacrifici, sia quello che possa maggiormente soddisfare non solo i soggetti esponenziali (confessione religiosa e soggetto pubblico), ma soprattutto la persona, termine ultimo e fondamento dell’ordinamento.

La condizione giuridica dei luoghi di culto tra autoreferenzialità e principio di effettività

BETTETINI, Andrea
2010-01-01

Abstract

Nella tradizione occidentale cristiana il luogo a cui rendere culto a Dio si è costantemente identificato con la chiesa. E anche nella cultura ebraica la sinagoga ha costituito il luogo privilegiario, prima ancora che del culto, della stessa identità di un popolo. Pertanto, la dottrina e la legislazione sull’argomento hanno costantemente fatto riferimento più che al concetto di luogo di culto (caro peraltro alla tradizione francese) , a quello più determinato di edificio di culto. In un certo senso, la specie è divenuta identificativa del genere. Ma tale “sineddoche giuridica” è ora posta in crisi. Invero, l’identificazione fra luogo ed edificio si rivela viepiù insufficiente per qualificare quei fenomeni religiosi prima poco diffusi, ma che ora assumono sempre maggiore rilevanza nel nostro ordinamento, in cui il culto non è reso in un edificio; oppure è reso in strutture immobiliari in cui si rende anche culto ma che in realtà hanno una funzione polivalente (come la moschea). Tutto questo parrebbe mettere in discussione le certezze sinora raggiunte dalla dottrina sulla qualificazione di un edificio di culto. Invero, cambiando il sostrato sostanziale, essendosi transitati nella realtà sociale dal più specifico edificio al maggiormente comprensivo luogo come spazio entro cui i fedeli di una confessione possono esercitare i loro riti, si richiede anche di darne una definizione e qualificazione giuridicamente rilevanti che non possono limitarsi a quelle sinora formalizzate per, appunto, gli edifici di culto, e che ugualmente garantiscano la libertà religiosa di cui il culto è espressione visibile. Posta la varietà di modi, di tempi, di luoghi (non necessariamente limitati a un edificio) attraverso cui il culto può esplicarsi, soprattutto nelle “nuove” confessioni religiose, pare senz’altro opportuna una valorizzazione del criterio autoreferenziale. Solo la specifica confessione religiosa può determinare quale sia, nel suo mondo di pensiero e di azione, e a garanzia e promozione della propria identità, il luogo adatto per rendere culto a un Essere che non dipende da altro, che ha la propria ragione in se stesso, e da cui in qualche modo ci si sente dipendenti, o comunque in relazione. E, in questo senso, tale criterio appare come una estrinsecazione del principio di sussidiarietà che con le leggi Bassanini e la riforma del Titolo V della Costituzione è divenuto uno dei principi fondanti i rapporti intersoggettivi: infatti, con il rilievo dato alle determinazioni confessionali la ripartizione gerarchica delle competenze appare spostata verso gli enti più prossimi alla persona e, pertanto, più vicini ai bisogni reali del territorio. Ma nel momento in cui tale determinazione interferisca con il nostro ordinamento, attribuendo questo alla qualifica “luogo di culto” specifiche prerogative giuridicamente rilevanti, è giocoforza che l’autorità civile incroci la qualifica religiosa con un principio di effettività, attraverso un’indagine diretta ad applicare un principio di verità e di corrispondenza tra quanto la confessione dice di sé e del suo luogo di culto, e l’effettiva funzione svolta da questo. Un controllo limitato a valutare l’esistenza di una preminente attività di culto, un criterio cioè, se non del tutto predefinito, senz’altro oggettivizzabile, così da permettere un più agevole controllo di legittimità sostanziale in caso di un eventuale rifiuto del riconoscimento di tale qualifica, perlomeno sotto il profilo dell’eccesso di potere (con la logica difficoltà di qualificare ciò che si intenda per religione e per attività di culto). Il possibile conflitto potrebbe peraltro essere prevenuto, o ridotto, mediante una procedimentalizzazione delle relazioni tra le autorità competenti e la confessione religiosa, qualora la disciplina sui luoghi di culto abbia applicazione sulla base di intese tra i soggetti ora richiamati. In tal modo si coordinerebbero e comporrebbero gli interessi dell’amministrazione e quelli della confessione per pervenire a un risultato che, pur con possibili sacrifici, sia quello che possa maggiormente soddisfare non solo i soggetti esponenziali (confessione religiosa e soggetto pubblico), ma soprattutto la persona, termine ultimo e fondamento dell’ordinamento.
2010
edifici di culto; libertà religiosa; luoghi di culto
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/20.500.11769/5896
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